Essere soli e sentirsi soli: sono la stessa cosa?
Tutti abbiamo momenti in cui vogliamo restare soli con noi stessi e lontani dagli altri. Ciò corrisponde a un sano bisogno umano: pensiamo, ad esempio, a quando sentiamo di doverci fermare per recuperare le energie o quando cerchiamo uno spazio di calma necessaria a riflettere su qualcosa.
Cosa diversa è il senso di solitudine: in effetti, potremmo essere soli senza sentirci soli, o al contrario provare solitudine nel bel mezzo di una festa o di una folla.
Psicologicamente, la solitudine implica la sensazione di essere dolorosamente scollegati, lasciati fuori, isolati, senza nessuno a cui rivolgersi per essere sostenuti. Si pensa che nessuno capisca le nostre preoccupazioni o che sia interessato a conoscerle e alleviarle. In genere proviamo emozioni spiacevoli (es. ansia, angoscia, tristezza) e valutazioni associate a esse, ad esempio sulla mancanza di intimità e relazioni affettive o su un futuro di solitudine che ci aspetta.
Anche la solitudine è un sentimento fisiologico. Ma come in tutte le cose, quando diventa un’esperienza cronica e molto dolorosa, va affrontata perché può essere problematica per il nostro benessere. Sappiamo ad esempio che la solitudine cronica è collegata a molte problematiche di tipo psicologico (come disturbi d’ansia, depressione e disturbi del sonno) e fisico (come problemi cardiaci e obesità); la ricerca suggerisce che intensifica perfino il dolore percepito.
Senza addentrarci in un’analisi delle sue cause individuali, culturali, sociologiche… è evidente come nell’epoca in cui viviamo la solitudine sia diventata un problema sociale che ha assunto implicazioni sulla salute mentale delle persone. L’uso dei media digitali, generando una connettività pervasiva tra le persone, al tempo stesso ha allargato vuoti di relazione già presenti – nella famiglia e tra i pari – in cui sono cadute per prime le generazioni di bambini e adolescenti. La pandemia degli ultimi due anni, relegandoci in casa, ha contribuito ad accrescere le difficoltà già vissute da persone socialmente isolate, ritirate o prive di una famiglia.
Capire il senso della solitudine
Un modo per capire meglio la nostra solitudine è guardarla dentro il quadro della nostra vita e del contesto intorno a noi: essa riflette in modo abbastanza limpido la condizione oggettiva della nostra vita? Ad esempio, sentiamo di avere poche relazioni significative da cui possiamo sentirci sostenuti, confortati, incoraggiati? Ci viene in mente un/a amico/a a cui potremmo condividere nell’immediato qualcosa di bello o una difficoltà che ci è capitata? La nostra vita quotidiana è fatta anche di incontri, scambi e nuove conoscenze? Se siamo oggettivamente isolati dagli altri, il sentimento di solitudine è un segnale che ci avvisa di bisogni emotivi non soddisfatti, e può spronarci a costruire o rafforzare le relazioni.
Quando sentirsi soli è invece più un tema ricorrente, o una costante della nostra esperienza, probabilmente indica quello che nel Cognitivismo Clinico è chiamato “schema disfunzionale”, o tema di vita.
Uno schema è un’organizzazione che comprende idee su noi stessi, gli altri, il mondo, il futuro… che si origina nell’infanzia o nell’adolescenza e ci serve per attribuire significato e interpretare le esperienze che viviamo; gli schemi prendono forma da esperienze precoci nelle relazioni, ricordi ed emozioni, ancor prima di strutturarsi in credenze. Nella storia di apprendimento costruiamo schemi su tutto: movimenti corporei, amicizie, oggetti del mondo, conoscenze culturali, emozioni ecc… Mantenere i nostri schemi nel corso della vita, anche quando non ci sono utili o creano problemi, è normale e risponde al bisogno di “coerenza cognitiva”, ovvero al bisogno di mantenere una visione stabile e prevedibile del nostro esistere nel mondo.
Dunque, se spesso ci capita di sentirci emotivamente soli, destinati a non essere capiti o sostenuti, è possibile che la solitudine sia per noi uno schema disfunzionale. O una “trappola” – come la definisce Jeffrey Young, autore della Psicoterapia Schema Therapy e del libro divulgativo tradotto in italiano “Reinventa la tua vita“. È possibile cioè che nell’infanzia non abbiamo avuto piena soddisfazione di alcuni tra i bisogni emotivi di base come cura, calore, ascolto empatico, intimità affettiva, protezione o guida, da parte dei nostri adulti di riferimento. Quelle credenze che nell’infanzia riflettevano l’ambiente in cui si è cresciuti e avevano quindi funzione adattiva, si manterrebbero fino all’età adulta e talvolta si riattiverebbero di fronte a stimoli nuovi che richiamano le ferite del passato, riportandoci a vivere quelle stesse emozioni come se un bambino vulnerabile tornasse a farsi sentire dentro di noi.
Che cosa ci fa restare intrappolati?
La ricerca sul funzionamento degli schemi disfunzionali ha evidenziato che essi tendono naturalmente a conservarsi nel corso della vita e non scompaiono, a meno che non siano messi in luce e non si lavori per modificarli. Ci sono diverse ragioni alla base.
Una di queste è che ogni schema “innesca” delle distorsioni cognitive, ovvero ci fa percepire la realtà in modo un po’ alterata in modo da rinforzare lo schema da cui si origina. Se soffriamo di solitudine, tendiamo a prestare più attenzione e a dare più importanza a episodi di vuoto affettivo (es. un amico rifiuta la nostra proposta di uscire, quando restiamo a casa senza programmi per la sera), rispetto alle volte in cui ci sentiamo connessi o oggetto dell’attenzione degli altri.
Una seconda ragione è legata ai modi in cui cerchiamo di gestire la sofferenza, che in termini tecnici sono definiti stili di coping. Un esempio è l’evitamento, come quando si decide di tagliar fuori le relazioni intime dalla nostra vita per evitare di sentire il dolore di essere trascurati; un altro, che sembra paradossale, è scegliere partner o amici non molto affettuosi (proprio gli stessi con cui ci sentiamo più “a casa”…) con l’effetto di sentire confermato il sentimento di solitudine. In altre parole, i nostri comportamenti contribuiscono a mantenerci dentro la trappola della solitudine, anche se vorremmo l’opposto.
Quando ci sentiamo soli, come regoliamo le nostre emozioni?
Una ricerca del 2021 di Preece e colleghi ha gettato luce su altri meccanismi che sembrano spiegare perché chi si sente solo tende a restare bloccato in questa condizione. Ecco in sintesi alcuni risultati.
Per prima cosa, nello studio le persone che si sentivano più sole tendevano a nascondere i propri sentimenti e a sopprimere l’espressione delle loro emozioni. Esse tendevano anche a non cercare sostegno sociale e a rifiutare il sostegno sociale offerto.
Inoltre, queste persone hanno mostrato una maggiore tendenza a utilizzare strategie di regolazione delle emozioni disadattive come:
- attribuzione della colpa (rispondere a un’esperienza spiacevole incolpando sé stessi o ritenendo gli altri responsabili)
- catastrofizzazione (focalizzarsi ed enfatizzare la natura terribile e insopportabile di una situazione)
- ritiro (evitare le situazioni sociali quando sperimentavano emozioni spiacevoli)
- ruminazione (soffermarsi a lungo a riflettere sui sentimenti o i pensieri di un episodio doloroso per trovare una soluzione)
Al contrario, con meno probabilità facevano uso della rivalutazione cognitiva, quella strategia che permette di considerare una prospettiva alternativa e positiva su un evento stressante (ad esempio, considerare la propria sofferenza un’occasione per conoscersi meglio, o per cercare aiuto).
La strada per il cambiamento
Come detto in precedenza, gli schemi che ci portiamo dietro sono stati appresi nella nostra storia, e possono essere corretti.
Il primo passo è riconoscere se la solitudine è una trappola per noi: vedere chiaramente e dare un nome a un sentimento che forse abbiamo sempre conosciuto, che parla della nostra storia. Possiamo provare a “sentire” questa trappola (anche se ciò può essere doloroso) e cogliere le connessioni tra questo sentimento nel presente e le sue origini nella nostra storia, per comprenderla davvero.
Possiamo allenarci a rispondere alla “voce interiore” della solitudine mettendola in discussione, riconoscendo le prove che la disconfermano, pensandola come una visione distorta che non riflette la realtà in modo affidabile, ma modificabile. Per esempio, chiediamoci: davvero intorno a noi non c’è nessuno che abbia a cuore come ci sentiamo? È possibile che le persone che conosciamo provino per noi interesse a diversi livelli, a prescindere da come lo esprimono?
Possiamo fare lo sforzo, forse per la prima volta, di investire su amici e compagni premurosi e sensibili che ci facciamo sentire amati. Iniziare a comunicare i nostri bisogni in modo chiaro, accettando che le persone importanti si occupino di noi. Forzarci di non isolarci quando sentiamo che gli altri non prestano attenzione a noi.
Quando il cambiamento è un processo troppo difficile da compiere da soli, è importante chiedere un aiuto professionale come la consulenza psicologica o la psicoterapia, che permette di acquistare maggiore consapevolezza delle proprie “trappole” e nuovi strumenti per liberarsi da esse.